giovedì 29 maggio 2008

Conversazioni con Daniel Adami, il Cercavite. #2/1. Mora for dummies. Tre tentativi.


Incontro del 26 Maggio 2008. Soliti divanetti.
10 minuti di lucidità mentale.

G – Allora, hai un minuto di tempo per spiegare il gioco della mora a una persona che non ne sa nulla. Ci siamo?
D – ...
G – Quattro secondi, tre, due, uno, forza.
D – Allora, la mora è un gioco celebrale innanzitutto, perché c'è la coordinazione del movimento e la capacità, la lucidità mentale de decidere in una frazione de secondo. È un gioco che non tutte le persone sono adatte, perché va legato a un certo tipo di perspettiva, ed è una cosa estremamente divertente, soprattutto se uno la gioca con una persona che è allo stesso livello, pressapoco, o magari più alto. È un gioco che ti agilizza tantissimo el cervello.
G – Mancano dieci secondi, e non hai ancora detto nulla.
D – La mora è un gioco bellissimo, è vecchissimo, è stato vietato e... giocatelo, perché è bellissimo.
G – Fine. Una tragedia Daniel, non hai spiegato neanche una regola.
D – Ma dai, ho parlato di tante cose che...
G – Daniel, la gente vuole giocare a mora, e non sa come si fa. Spiega le regole.
D – Basta che una persona pensa che deve avere lucidità mentale e controllo del movimento.
G – Stai scherzando? Prima spieghi le regole, poi, se ti avanza tempo, parli della lucidità mentale. Ok?
D – Ah, ok.
G – Due secondi, uno.
D – La mora è un gioco che se manifesta con una grande capacità mentale e si gioca con le dita. Bisogna muovere le dita, pensando nel movimento che uno fa, e tentare di imbroccare la giocata in una sorta de lotteria con un avversario che fa la stessa cosa, in cui tu in una frazione di secondo devi riuscire a fregare la sua lucidità, sapere cosa metterà, tu mettere di conseguenza un numero che correlato all'altro te dia un risultato, e questo risultato determina il vincitore della manche. Si gioca, a nostro stile, a sette punti, in cui la mora è il numero sette, e non si può dire sette perché uno viene ammonito altrimenti, e poi è composta dal resto dei numeri che vanno dallo zero al dieci. Bisogna azzeccare il numero che capiterà nell'articolazione delle due mani.
G – (grasse risate) Grandissimo, un capolavoro.
D – (risate)
G – Ma non hai neanche accennato al fatto che il numero si deve chiamare.
D – Ma sì (sospira), non l'ho detto perché son sempre convinto che più gente conosca la mora. Me sembrava una cosa talmente...
G – La mia consegna non era chiara, in effetti.
D – No, no, era chiarissima, però...
G – Facciamo un altro tentativo?
D – No, no.
G – L'ultimo?
D – No.
G – Mi spiace, il minuto parte adesso.
D – Allora, la mora...
G – Concentrati.
D – ...è un gioco che consiste basicamente in chiamare un numero che viene segnato col movimento delle dita. Allora questo numero, ovviamente, non deve pensarlo uno soltanto come il numero che segnerò, ma anche pensando nella somma ipotetica del risultato che darà l'altro movimento de dita dell'avversario. Se uno riesce a trovare el risultato giusto... un esempio può essere io che metto cinque, l'avversario che mette tre, e io dico otto, allora vuol dire che ho azzardato una somma che è andata a buon fine. Basicamente consiste in questo, poi il resto è tutto quello che ho colorato prima.

lunedì 19 maggio 2008

Conversazioni con Daniel Adami, il Cercavite. #1/2. Crespo, le sbornie, la poesia.

Parte 2. Ore 20.00 – 20.43.

Argomenti di riflessione
1- I nonni ci insegnano a bere.
2- Crespo, il bomber, l'uomo.
3- Essere una riserva titolare.
4- Solo il trequartista ci aiuta a comprendere la saudade.

G – Sei un buon bevitore, è merito del nord-est o ci hai sempre dato dentro?
D – A dire il vero, ci ho dato dentro sì, quasi sempre. Ci sono stati periodi in cui l'ho fatto un po' meno, ci sono stati periodi in cui ho fatto abuso di altre cose (ride), però al di là di questo, sì, insomma, diciamo che, per quanto riguarda la famiglia, il mio bagaglio familiare, non ho avuto in famiglia grandi bevitori. Me ricordo più che altro el mio nonno materno che lui sì, aveva una vera cultura. Gli piaceva tantissimo, se ne intendeva. Era una persona che veniva da una famiglia in cui il fatto di bere era un qualcosa di molto comune, diciamo. Poi da parte dei miei amici, Felipe, quello che hai conosciuto, il mio migliore amico...
G – Dai, Felipe non beve tanto.
D – Felipe adesso è abbastanza controllato, perché sta insieme alla sua ragazza, lui è così, non fa le stesse cose che quando uscivamo all'epoca. Quando esce con i suoi amici è anche lui uno che si dà abbastanza da fare. Io da parte sua ho preso un po' questa cultura perché suo nonno era irlandese e già fin da piccoli ci faceva bere qualcosina di whisky, qualche cocktail che preparava lui. La prima sbronza è stata in mani sue, ci ha fatto bere una cosa che si chiama Celtic Crossing, che è praticamente del whisky che viene mischiato con delle erbe e... la consistenza è quella del whisky, però ha un sapore molto più dolciastro, quindi uno ci prende gusto e nel giro di due bicchieri... dilaga, però con molto piacere, ecco. È un qualcosa che ho ritrovato in qualche bar, in questi anni qui, e se la trovo la bevo, perché è una cosa che tutt'oggi mi piace tantissimo. Non so, ho cominciato un po' con quello. Poi anche in Argentina abbiamo una discreta cultura per quanto riguarda i vini, soprattutto rossi. Una particolarità di avere dei vini rossi molto buoni...
G – Sì, mai più buoni dei nostri.
D – No, quello no, però ci sono anche certi tipi di vino che forse non ho ancora assaggiato, o qualcuno sì... So che sono anche valutati bene, anche a livello mondiale, ecco. È ovviamente che il vino è qualcosa che va anche legato con quello che mangi, e anche al territorio... Comunque, nel mio periodo punkettone soprattutto, in quel periodo lì, ho cominciato a bere tanto.
G – Allora Daniel, cambiamo discorso, sai chi ho visto in tv oggi? Ho visto il tuo Crespo, un'intervista su sky.
D – Crespo è...
G – Aspetta, ha detto che un giorno vorrebbe tornare a giocare nel River.
D – Sarebbe un qualcosa che mi piacerebbe tantissimo (ride, quasi commosso). Spero sia l'anno prossimo (trattenendo le lacrime). È un giocatore che a me è sempre piaciuto in modo particolare.
G – Parla come te, vecchio.
D – Crespo è una persona di cui io... è uno di quei calciatori argentini forse... non so se l'unico, perché ci son stati anche altri che... però io in lui ritrovo, al di là delle sue capacità calcistiche che...
G – ...sono limitate.
D – Beh, io penso che sia stato un eccelso bomber ovunque abbia giocato. Nonostante questo apprezzo tantissimo in lui, innanzitutto come persona, perché come dici te è una persona molto umana, una persona che è molto passionale, ma allo stesso tempo è anche una persona che si sa adattare, che ha ben capito qual è questo momento dell'Inter. È stato un giocatore che non ha mai fatto polemiche, e stiamo parlando di un giocatore che è stato scarpa d'oro...
G – Quando?
D – Con la Lazio. È stata forse la sua miglior stagione, segnava... dappertutto.
G – Ti si illuminano gli occhi.
D – Eh, Crespo è una persona che a me... non lo so, ha quella capacità di essere un calciatore e una persona sullo stesso piano splendida, e poi la cosa che mi piace di più di lui è che è una persona che, nel primo giorno che ha cominciato a giocare, ha sempre lavorato per costruirse la carriera. Ha fatto tutta la scuola calcio in River, ha sempre giocato nel River, si è costruito come giocatore, come persona. Dopo col River è stato il capocannoniere che dopo tantissimi anni, dopo dieci anni, ha fatto rivincere al River la coppa Libertadores. È stato il bomber della coppa, segnava dovunque, era una bestia, non c'era verso, non c'era maniera di fermarlo. E dopo è venuto qui in Italia con umiltà e si è costruito una carriera splendida, perché lui, in tutti i club dove ha giocato, non è mai stato contestato, ha sempre fatto una figura più che degna, e lui ha avuto la possibilità di giocare nell'Inter e nel Milan, e se lui gioca un derby contro o a favore di uno, comunque viene applaudito da tutto lo stadio. Questa è una cosa molto importante, cioè ha lasciato un bellissimo segno dovunque c'è stato.
G – Ha detto che adesso il suo sogno è quello di giocare i mondiali in Sudafrica. Sa che è un'impresa impossibile, ma...
D – Però io mi auguro che lui possa farlo.
G – Dai, non ce la farà mai, Daniel.
D – Ma io sinceramente penso che una persona così, difficilmente tu puoi lasciarla fuori dal gruppo. Perché anche se non la fai giocare, è una persona che dentro al gruppo è importantissima. Tu pensa a uno come Balotelli. L'altro giorno è stato fischiatissimo da tutti. La prima persona che è stata ad avvicinarsi a lui, quando si è seduto in panchina, è stato Crespo, subito. Questa è una cosa molto importante dentro a un gruppo. Quando hai una persona così, io penso che, anche se lui non gioca, deve essere portato dentro la rosa.
G – Tra due anni quanti anni avrà Crespo? 36?
D – Crespo oggi, entrando, con meno allenamento, con meno partite sulle gambe, è una persona che se tu, di fianco, le metti una persona che le costruisce un attimino il gioco, lui è ancora in grado de fare la differenza.
G – Non mi ha mai particolarmente stupito come giocatore.
D – Non è spettacolare, però è un giocatore che quello che sa fare lo fa molto, molto bene. Molto bene. Ovviamente ci sono stati altri, non so, per citare il caso anche di Batistuta, per dire.
G – Vacca boia.
D – Eh, anche di lui... cioè Batistuta da parte mia è stato forse un po' meno gradito di Crespo, perché... beh, Crespo viene dal River, che è il mio club, e quindi ovviamente che uno ci tiene di più.
G – Dove giocava Batistuta in Argentina?
D – Batistuta ha fatto un anno nel River, ma non giocava praticamente. Dopo è andato al Boca.
G – Ah, cazzo, ora capisco.
D – E lì è diventato il giocatore che poi è stato venduto alla Fiorentina e... comunque io cioè non ho assolutamente rancore per Batistuta, difatti anche a me Batistuta piaceva da morire, però cioè ovviamente questo suo percorso, che è stato diverso da quello di Crespo, non è che per me sia stato meno... cioè che io sia stato più reticente su Batistuta, però lo vedevo con altri occhi, ecco. Comunque è un giocatore che veramente... Batistuta era un'altra bestia. Poi Batistuta ha avuto la possibilità di avere moltissima continuità nello stesso club e quindi anche questo ti permette di avere una carriera diversa, come quella che ha avuto Del Piero nella Juve, oppure come quella di Raul nel Real, e così via, potrei citare tantissimi. Il caso di Crespo è stato un po' diverso, comunque Batistuta è stato un giocatore che a me piaceva da morire. Possiamo parlare, ancora andando più indietro, anche di Balbo, sempre per citare altri attaccanti. Poi, ovviamente, ci sono altri giocatori che a me...
G – Ma Balbo dove giocava in Argentina?
D – Balbo in Argentina ha giocato nel Newell's, che è una squadra di Rosario, tra le cinque sei società più grandi del calcio argentino, ed è stata una delle società che ha cimentato più giocatori. Lo stesso Batistuta... no, Batistuta non è uscito dal Newell's, ma ci sono stati tanti giocatori che sono venuti fuori del Newell's Old Boys. Tantissimi, tantissimi.
G – E Balbo era...
D – Balbo era una punta un po' come Chiesa, no? Cioè quelle punte che... A volte poteva diventare anche una seconda punta, però era un bellissimo giocatore, sempre parlando de attaccanti, ovviamente. Poi, non so, un altro giocatore che per me è sempre stato un pallino è il Ciolo Simeone. Per me è una bandiera.
G – Un picchiatore.
D – Eh, però era un giocatore importantissimo.
G – Giocava nel River?
D – No, lui è venuto fuori dal Vélez Sársfield, che è un'altra società importante del calcio argentino. È un'altra bella squadra, in un certo periodo ha tirato fuori tanti giocatori molto importanti, forti... Ha vinto diversi campionati, quindi... Va be' Simeone, dopo, non so, difensori ce ne son diversi che ne han tirati fuori... persino Ayala, che continua a giocare anche avendo quasi quarant'anni.
G – Non ci credo.
D – Penso che quest'anno giocava come riserva titolare del Villarreal. È un altro giocatore che anche per me è stato un pallino, ha fatto storia, in nazionale e anche nei club, insomma, giocava nel Milan... ha giocato dovunque bene. E poi Milan, possiamo parlare di Milan. Mi piaceva tantissimo Ortega, che adesso è ritornato nel River, va be', qui in Italia non è mai riuscito a esplodere però...
G – Quell'anno a Parma non aveva fatto così cagare.
D – No, neanche quello alla Sampdoria, non ha fatto neanche male lì.
G – Vedi cosa succede ai fantasisti argentini? Il bomber si adatta sempre...
D – Il bomber, o il difensore, e forse anche certi centrocampisti riescono ad adattarsi. I fantasisti, i trequartisti argentini, in genere sono pochi quelli che riescono...
G – Sì, non solo gli argentini, i trequartisti in genere qui in Italia si cagano addosso, abbiamo dei difensori con i controcoglioni, non puoi star fuori dall'area a cincischiare.
D – Eh, siete gli inventori del catenaccio (ironico). Beh, vedi, quella è una delle cose che, tornando ai primi discorsi che abbiamo fatto prima, è una delle cose anche che me manca dell'Argentina, quella figura del fantasista, del trequartista, che da noi... noi abbiamo una visione del calcio – e non parlo soltanto degli argentini, parlo del Sudamerica in genere – abbiamo la visione del gioco innanzitutto da quello che rappresenta il trequartista, il fantasista, quel giocatore lì. Dopo el resto della squadra. Però è sempre quel giocatore lì, quello che porta il 10, no? Cioè, ha sempre quel fascino, è quello che te dà il qualcosa in più, quello che, quando la partita non riesci ad aprirla, lui con una sua cosa, o mette in gol a qualcuno, oppure tira fuori una punizione, o qualcosa del genere. Noi vediamo il calcio un po' in quella maniera lì, è per quello che io impazzisco a volte quando vedo certi giocatori che magari qua piacciono un po' meno. Per citare, adesso, quando parliamo di Lavezzi... giocatore che giocando di seconda punta, sì, ha un ruolo, ha un qualcosa di importante per la squadra, ma io ce lo vedrei un po' più come trequartista, no? Non so, io son dell'idea, così, non so. Pensando, l'altro giorno, io pensavo che se la Roma, oggi, come squadra, prendesse Lavezzi, per metterlo di fianco o in assenza di Totti, è un giocatore che alla Roma, oggi, può dar tantissimo, per il suo stile di gioco, no? Perché combacia abbastanza con quello che fanno gli altri. Invece nel Napoli è un po' condizionato perché ha pochi che stanno dietro coi piedi buoni, no? Forse l'unico. Però io impazzisco per questi tipi di giocatore. È per quello che quando vedo Kaka che, essendo un trequartista un po' atipico, perché riesce ad arrivare più al gol, perché ha più corsa, comunque è un giocatore che a me fa morire, come Riquelme, per dirti un altro, Aimar.
G – Basta, sono le 20.43, tra due minuti comincia la partita. Ma prima chiudiamo il cerchio. Tornando alla domanda d'inizio, cosa ti manca di più dell'Argentina?
D – (sospira)
G – Non deludermi.
D – La fantasia calcistica.
(grasse risate)

mercoledì 14 maggio 2008

Conversazioni con Daniel Adami, il Cercavite. #1/1

Incontro n° 1.
Registrazione del 29 Aprile 2008, sui divanetti dell'Emporio.

Parte 1. Ore 19.20 – 20.00.

Argomenti di riflessione
1 – Definire saudade è impossibile, ma non ci si deve arrendere, mai.
2 – Il dialetto riduce le distanze.
3 – Essere un cercavite: prendere la vita per i coglioni.
4 – Punk e coscienza politica.
5 – L'illusione d'amare in età adolescenziale.
6 – Razionalità e bestialità: un equilibrio possibile.

G – Allora Daniel, hai idea del perché siamo qui?
D – Credo proprio di sì, però...
G – Addirittura, io non ne ho idea.
D – No, io ne ho una molto leggera, però non so se andrà per quel verso, comunque.
G – Quale sarebbe quest'idea?
D – Quest'idea è di fare innanzitutto qualcosa di cui se ne parla da un po'. L'inizio e la fine di un percorso. L'inizio perché è un qualcosa di nuovo quel che facciamo, la fine perché è la conclusione di qualcosa che avevamo in mente.
G – Va be', di cosa parliamo, Daniel?
D – Allora, innanzitutto parliamo...
G – Dimmi chi sei, Daniel.
D – Io sono Daniel, e da qua se parte. Sono una persona che nonostante viene da un posto abbastanza lontano da questo e dopo un frammento di vita vissuto qui...
G – Da quanti anni sei qui?
D – Sono qui da quasi sei anni. Quest'estate, il 25 luglio, si compiono sei anni.
G – Quindi, hai vissuto in Argentina fino a?
D – Vent'anni. Dovevo ancora fare i ventuno. Venti anni vissuti là, altri sei, quasi sette, qui. Tornando al discorso di prima, mi ritrovo in una situazione particolare, perché nonostante il posto in cui sono nato, le condizioni di vita su... cioè diciamo, sui binari in cui ho vissuto la mia vita, in questo momento credo di avere attaccato delle belle radici qua, e mi ritrovo in una situazione molto bella, nonostante quello che mi potevo aspettare prima di arrivare. Altrimenti non saremmo qui a fare questo.
G – Certo, ma la nostalgia c'è.
D – Nostalgia c'è. Come dice il nostro amico Filippo c'è un po' di saudade. Però...
G – Cosa vuol dire saudade?
D – È come una specie di nostalgia però che va riferita a un concetto molto più ampio di quello che sarebbe la nostalgia intesa come parola che uno può trovare sul dizionario. Cioè, un qualcosa di molto più... Insomma, è una situazione...
G – In due parole, Daniel, che differenza c'è con la nostra nostalgia? È un sentimento che potete provare solo voi?
D – No, no. La saudade è una parola che si trova soltanto nella lingua portoghese, che è una lingua latina come la nostra. Però questa parola in particolare rappresenta una cosa che in altre lingue non viene rappresentata da nessuna parola specifica, se no da... cioè la saudade è un concetto più che una parola, perché riferisce quello che sarebbe la nostalgia, ma non soltanto delle cose o delle persone. Parla un po' di quello che sarebbe l'intensità della nostalgia, e non ha un riferimento particolare soltanto ai ricordi, ma è legata a un insieme di cose che uno si ritrova nella vita quotidiana. Sinceramente io non vorrei esprimermi tantissimo perché non l'ho studiata.
G – È un qualcosa che senti, e forse saudade è l'unico modo per dirlo.
D – Sì, forse è la parola che sintetizza di più un insieme di cose che fanno un concetto.
G – Giusto. Quindi soffri di saudade, ogni tanto.
D – Sì, si può dire di sì. È una bella cosa comunque.
G – Cosa ti manca di più?
D – Cosa mi manca di più? Una delle cose di cui si può sentire un po' di nostalgia è quello che va legato ai rapporti umani in sé. Noi abbiamo dei concetti un po' diversi, un approccio diverso sulle persone. Che non va legato soltanto ai sentimenti, ma anche al modo in cui ci esprimiamo. Perché parlando una lingua diversa e soprattutto un dialetto – perché in Argentina abbiamo una maniera molto speciale di parlare lo spagnolo – riusciamo a trovare una distanza forse minore nei confronti delle altre persone. È una cosa abbastanza difficile da spiegare.
G – Ti mancano i rapporti sudamericani. L'amicizia sudamericana.
D – No, non solo l'amicizia, parlo anche di rapporti in genere, con la gente in genere.
G – Ti manca la tua gente, il calore della tua gente. Noi siamo più freddi?
D – No, beh, assolutamente. Io sono uno di quelli che... a me non piace giudicare... cioè io penso che le persone siano un mondo a sé, e quindi al di là della cultura che possono aver avuto e delle cose che pensano. Cioè io non sono uno di quelli che dicono: qua in Europa si è più freddi, e in Sudamerica è così. C'è di tutto. Anche là c'è molta gente fredda. È il fatto che comunque il modo di relazionarsi è un po' diverso. È difficile da capire, sono delle cose che soltanto si capiscono quando uno le vive.
G – Certo.
D – Quella diciamo che è una delle cose che me vengono più così lampantemente in mente, se ci penso due secondi. Poi tante altre cose, la famiglia, amici che ho lasciato, attività che avevo.
G – Hai detto che sei arrivato dall'Argentina nel 2002. Cosa facevi là?
D – Per fare una specie di premessa a ciò che dirò dopo, io mi sono sempre considerato quello che noi in Argentina chiamiamo un cercavite. Cioè sono stato una persona molto attiva, con tanti interessi, una certa disponibilità e capacità per affrontare le cose che mi piacevano e soprattutto la passione di andare, almeno quasi sempre, o è quello che ho tentato, fino in fondo. Insomma ho studiato, ho finito la scuola... ho fatto un qualcosa che sarebbe abbastanza simile a quello che è il liceo classico.
G – Addirittura.
D – Sì, sì, ho fatto il liceo ad indirizzo sulle scienze sociali, che son sempre state un po' il mio forte.
G – Sì. Non è proprio il liceo classico.
D – No. Cioè diciamo che come introduzione è stato un po' così, poi ovviamente la scuola là è diversa. Finiti gli studi – io ho finito perfettamente, non ho avuto mai gravi difficoltà nella scuola, salvo con matematica e fisica...
G – Ah, matematica e fisica ti buttavano un po' giù?
D – No, non sono mai riuscito a digerirle fino in fondo, magari approfondendo potrei trovare degli spunti che non pensavo.
G – Beh, insomma, dai, non mi pare il caso.
D – No, dico, qualora succedesse...
G – Ma speriamo di no, dai.
D – No, non me lo auguro nemmeno, però nella vita non se sa mai. Nonostante questo ho fatto la scuola. Poi, finita la scuola, per un anno ho smesso di studiare invece di cominciare l'università subito. Ho fatto un anno in cui ho vissuto sei mesi a Cordoba – che è la mia città – in cui lavoravo. Gli altri sei mesi sono andato a vivere a Buenos Aires, perché ho conosciuto una ragazza che mi ha fatto di aggancio...
G – Ah.
D – Eh, è stato il mio primo amore. Poi non è successo nulla, addirittura questa ragazza è uscita con il mio migliore amico. Però, al di là di questo, questa ragazza mi ha fatto di aggancio per fare uno stage di sei mesi presso la EMI Melograph - che è la compagnia discografica EMI - lavorando nel reparto diritti d'autore. Il mio lavoro consisteva più che altro nel ritrovarmi con diversi musicisti, produttori, e gente che stava nei dintorni dei gruppi. Facevo come una specie di corriere in cui me davano le cose da portare a questi gruppi, dei nastri che avessero registrato, oppure gadget, oppure dei ticket per andare a veder concerti. Ho lavorato sei mesi lì, mi sono ritrovato credo come mai più in vita mia, perché ero con le mani nella pasta su la cosa che mi piace di più, che è la musica.
G – E al tempo eri già un grande conoscitore di musica? Quanti anni avevi? Diciannove?
D – Ho fatto i diciannove lavorando lì.
G – Ed avevi già un approccio internazionale per la musica o eri più legato alla musica della tua terra?
D – Mah, diciamo che prima di cominciare a lavorare lì ero più legato alla musica che un po' avevo ereditato rubando i dischi a mio padre, oppure con Felipe, che ci prendevamo dei dischi. Molta musica vecchia, soprattutto scuola anni settanta, ottanta. I classiconi, con quelli lì che si comincia. Ho avuto anche il mio periodo punkettone, intorno ai 16 anni. Ho cominciato coi Ramones, dopo sono andato dritto sui Rancid. Ascoltavo molti gruppi californiani, hard-core.
G – È stata una piccola parentesi, diciamo.
D – No, io di quel periodo lì ho un ricordo molto bello, io ne vado molto fiero. Perché fino a quel periodo lì io vivevo la musica in una maniera molto... come dire, mi piaceva, l'ascoltavo tantissimo, ma mi mancava l'input, non lo so, nell'atteggiamento magari. Avvicinandomi alla musica punk ho risvegliato un attimo la mia personalità, ho cominciato a vestirmi in una maniera diversa, avevo anche un approccio diverso con le persone che mi stavano intorno. Ero praticamente nel fiore dell'adolescenza e quindi tutte quelle cose che magari anni prima mi piacevano, potevo trarre qualche spunto, qualcosa. In quell'epoca lì le ho sintetizzate proprio in una maniera molto più complessa, completa. Ho cominciato a frequentare gente che faceva quella musica, con cui ho avuto qualche gruppetto, e poi ho cominciato a rispecchiare un po' anche quelle che erano le mie idee, anche politiche. Quindi è stato un po' il risveglio, diciamolo così. Mi sono tirato un attimo fori, ecco, a livello di personalità. Ho cominciato a pormi in una maniera diversa, avevo un atteggiamento molto più duro. Non lo so, magari anni prima frequentavo un po' tutti, invece in quell'epoca cominciavo a frequentare meno persone, ma quelle che avevano più a che vedere con me. Niente, poi, finito quel periodo, ho cominciato a lavorare alla EMI e lì ho cominciato anche a rispettare, capire di più i musicisti argentini, che magari avevo trascurato anni prima. Quindi è stato anche per me una cosa molto importante, il fatto di lavorare lì. Ho cominciato a concepire la musica come qualcosa di meno etichettato, qualcosa di molto più grande, mi piacevano più stili, vedevo più concerti, stavo dietro, vedevo come si comportavano i diversi gruppi. Sono stato invitato anche a diverse feste che facevano questi musicisti. Insomma, ho visto un po' quello che era il dietroscena di quello che prima magari riuscivo a vedere soltanto... cioè immaginandomelo, vedendo qualche programma, ecco.
G – E tutto ciò tramite questa ragazza.
D – Tramite questa ragazza che, come detto prima, è stata il mio primo amore forte. È stato anche molto importante per me, perché dopo quello che è successo con questa ragazza ho cominciato a capire che bisognava concepire le ragazze in una maniera molto più... anche più grande. È stato lo stesso percorso che con la musica, cioè io mi ero innamorato di lei non perché mi piacesse soltanto la sua persona, se no perché lei rispecchiava tante cose che a me piacevano. Cioè lei era così, a me piacevano le donne fatte in quella maniera lì, con quell'atteggiamento. Sicuramente si atteggiava molto di più di quello che era, difatti dopo col tempo l'ho capito.
G – Non dirmi che ti piacciono quelle che si atteggiano più di quello che sono.
D – No, in quell'epoca, 17 anni, uno ha una concezione dell'amore molto più vaga. Era una questione anche più etichettata, a me piacevano magari le ragazze con un fisico come il suo, coi capelli come li aveva lei, che le piacesse la stessa musica che piaceva a me, e cose del genere, ma, nonostante queste piccole cose con cui ritrovavo affinità, a livello personale non ce n'era. E quindi, dopo questa... questo fallimento, diciamolo così, ho capito che bisognava, insomma, avere un rapporto con le donne che andava al di là di queste cose. Dovevo trovare un qualcosa di molto più profondo.
G – E come si chiamava?
D – Barbara. Si chiama, non è ancora morta.
G – La rivedrai?
D – Non lo so, probabilmente sì, perché abita in Spagna e volendo potrei anche, però a questo punto sinceramente non mi cambierebbe nulla.
G – Non ho dubbi.
D – Non mi cambierebbe assolutamente nulla, cioè oggi una persona come lei non mi direbbe nulla. Ecco.
G – Quindi con lei hai capito qual è la differenza tra l'amore e un'infatuazione passeggera.
D – Ho capito che l'amore è un qualcosa di molto più complesso, e che andava approcciato in una maniera diversa.
[Pausa. Si parla della birra che stiamo bevendo, birra da 12 gradi. Il cercavite racconta un aneddoto e poi confessa di essere ancora un po' bloccato per la presenza del registratore. Lo tranquillizzo]
D – Comunque, tornando al punto dove eravamo, insomma dopo questi sei mesi che ho fatto là, a Buenos Aires, sono ritornato a Cordoba e ho cominciato l'università. Nonché a lavorare. A Cordoba ho trovato un lavoretto che mi piaceva. Lavoravo in un panificio, facevo del pane.
G – Ti alzavi prestissimo la mattina?
D – Mi svegliavo presto ma più che altro lavoravo di più il pomeriggio, per fare il pane che andava cotto per l'altro giorno. Impastavo. Era un bel lavoro, nonostante come si pensi, ho un bellissimo ricordo di quel periodo lì.
G – Quanto è durato?
D – Ho fatto un anno e mezzo.
G – E poi sei partito.
D – Sì, dopo qualche mese son partito. Avendo questo lavoro ho cominciato l'università, mi sono iscritto a Storia, studiavo per diventare professore de storia. Facendo altri due anni, piuttosto di diventare professore potevo fare storiografia, che è la scienza che se occupa de fare i libri di storia, che era qualcosa che mi piaceva anche, come idea. Comunque dovevo ancora finire l'università per capire di farlo o meno. Comunque la storia per me è stata sempre la materia di scuola che mi piaceva di più, con la quale avevo una maggiore affinità. Son sempre stato una persona molto curiosa, leggevo tantissimo, adesso un po' meno, adesso mi son fermato. In quel periodo leggevo tantissimo, storia e anche tanti romanzi, anche classici, da partire... non lo so...
G – Il romanzo della tua adolescenza?
D – Eh, ho letto un bel po' di cose anche un po' impegnative per la mia età.
G – Certo, ma il romanzo dei tuoi primi vent'anni?
D – Mah, penso che il libro che mi abbia segnato di più è stato “Il ritratto di Dorian Gray”, di Oscar Wilde. Penso che è stato un po' il massimo che ho letto in quell'epoca. Ho letto qualcosa di Emile Zola, ho letto “I miserabili” di Victor Hugo, come libri più importanti.
G – “I miserabili”? Un bel mattone.
D – Bel mattone. Non son riuscito a leggerlo assolutamente tutto, penso che mi manchi qualcosa, comunque ce l'ho a casa, prima o poi lo sfoglierò.
G – Ma io ricordavo un altro libro.
D – Un altro libro?
G – Mi hai detto più di una volta...
D – Ah, quello l'ho scoperto nell'epoca in cui ho cominciato l'università. L'ho scoperto praticamente uscendo dalla scuola, intorno ai 18 anni.
G – Ed è stato amore.
D – Sì, sì, sì, l'ho letto più volte... penso che sia un po' il libro che rispecchia di più tanti versi della mia personalità.
G – Dai, si tratta di?
D – Si tratta de “Il lupo della steppa”, scritto da Herman Hesse, di cui ho letto anche altri libri, e mi piacciono tantissimo, ma quello lì... Mi ha fatto capire che certe cose di cui magari ero un attimino reticente erano dei pregi piuttosto che...
G – Non capisco.
D – Il fatto di avere una personalità, per quello che era la mia età, un po' al di fuori dalle righe, diciamo così. Io son stato un po' segnato, soprattutto nella mia adolescenza, come una persona un po' particolare, per cose che ho ereditato a livello familiare, anche per interessi propri. E già da adolescente avevo un certo vocabolario, avevo un comportamento magari più corretto nei confronti di certe situazioni, piuttosto che quelli che avevano alla mia età... Cioè mi sentivo un attimino messo da parte nell'adolescenza perché... insomma, per le cose che mi sono capitate nella vita avevo un approccio con la realtà da una persona più grande. E questo magari adesso è più facile da gestire. Essendo adolescente magari mi veniva molto riconosciuto dai miei professori o dai miei datori di lavoro, invece per quelli che erano i ragazzi della mia età...
G – Cioè hai imparato ad andare per la tua strada? Hai imparato a sbattertene?
D – Diciamo di sì.
G – Ma io parlo senza averlo letto. Di cosa parla il libro?
D – Allora, basicamente il libro parla di questo personaggio che è abbastanza autobiografico, nei confronti dell'autore, e... praticamente lui spiega un momento storico di cui lui è stato parte e de come se comportava la società, de come stavano andando le cose e dell'approccio che lui aveva nella vita nei confronti di tutte queste cose che succedevano nella società. Lui riesce praticamente fare una specie di giochino tra quello che sarebbe dottor Jekyll e mister Hyde e... parlando della sua personalità vista da due punti di vista diversi. Cioè quello che era il lupo, o la bestia, in cui lui rispecchiava i suoi sentimenti più veri, più puri e più bestiali, e dall'altra parte della sua personalità parlava di essere una persona educata in una certa maniera, che apparteneva a una certa estrazione sociale ed economica. E quindi lui, insomma, fa una specie di ritratto autobiografico di questa polarità che c'era nella sua mente, ed è un qualcosa di molto bello e anche profondo, perché soprattutto quando lui parla della bestia tira in ballo tanti punti che possono sembrare scuri e magari non visti in una certa maniera, e lui invece dice che queste cose qua, questa contrapposizione con l'altra frazione te da la possibilità di avere una vita certamente equilibrata. Cioè tu devi essere un po' bestia e un po' razionale, per poter vivere la vita in maniera equilibrata.
G – Certo. E se l'equilibrio perfetto non esiste, tu ti senti più bestia o più uomo inserito in un contesto sociale?
D – Allora diciamo che io sono un po' come lui, no? Tento di cercare l'equilibrio assoluto. Su tanti punti di vista credo di essere abbastanza bestia, cioè nel senso sono una persona abbastanza schietta, con un cuore abbastanza grande.
G – Sei un passionale, per questo mi piaci.
D – Grazie, eh, eh. E quindi tento di inserire questa bestia nella vita di tutti i giorni, dopo addolcirla col minimo di potere razionale che ho per gestire un certo tipo di personalità, ecco. Finora penso che mi stia andando abbastanza bene...
G – Già, credo che tu ti sia inserito molto bene.